Heaven IV - spiaggia
06/09/2398, ore 20:30 - D.S. 75681.79
Il sole di Heaven IV stava scomparendo oltre l'orizzonte, tingendo l'oceano di un viola livido e innaturale, ma per Althea Sheva quella bellezza era solo un velo pietoso steso su una realtà mostruosa. Nonostante le note ritmiche di Bohemian Rhapsody che saturavano l'aria della spiaggia, la dottoressa percepiva una dissonanza che nessun altoparlante poteva coprire.
Si avvicinò a un gruppo di ingegneri del turno Beta che sedevano immobili vicino a una cassa acustica i loro corpi seguivano il ritmo con oscillazioni meccaniche, ma i loro sguardi erano persi in una fissità vitrea, priva di qualsivoglia scintilla emotiva. Althea passò il tricorder medico su un giovane guardiamarina e il responso fu un colpo al cuore.
"Capitano, guardi i loro occhi" disse Althea, intercettando Kenar mentre camminava nervosamente lungo il bagnasciuga "Non sono rilassati. Sono svuotati"
Kenar si fermò, le pupille ancora leggermente dilatate dal suo stesso trauma "La musica li sta proteggendo, Althea. Queen ha confermato che l'interferenza sta reggendo. Almeno ora non urlano più"
"Non urlano perché non hanno più la forza di farlo, Signore" ribatté lei, mostrando il display del tricorder con un gesto brusco "Questa è apatia per saturazione. La musica agisce come un rumore bianco, impedisce alle allucinazioni di formarsi nella mente cosciente, ma la radiazione infrasonica del pianeta sta ancora filtrando. Sta bombardando il loro sistema limbico attraverso le ossa, attraverso i nervi. È come cercare di curare un'emorragia interna mettendo un cappotto sopra il paziente per non vedere il sangue. Se non interveniamo subito, tra tre ore l'erosione sinaptica diventerà irreversibile. Diventeranno gusci vuoti, Capitano. Corpi sani con menti completamente rase al suolo"
Anna Maria Calvi, che era rimasta in ascolto poco distante, scosse la testa con gravità "Credo che abbia ragione, Capitano, lo vedo nello sguardo dei miei uomini. Sono come tante corde tese che stanno per spezzarsi. Althea ha ragione: il silenzio sotto la musica è più rumoroso del suono stesso"
"E allora cosa propone, Dottoressa?" intervenne Zoe, avvicinandosi a passo spedito "Non possiamo spegnere gli altoparlanti, ci farebbe impazzire tutti in pochi secondi"
Althea fissò il capo operazioni, poi volse lo sguardo verso il mare mentre rifletteva "Dobbiamo cambiare strategia. La logica di Queen e i dati storici potrebbero non bastare, sento che al di sotto di tutto questo c'è molto di più. Per disarmare questa macchina, dobbiamo capirne il funzionamento dall'interno" fece un respiro profondo, stringendo il tricorder al petto "Tornerò sulla nave, nel mio alloggio. Lì spegnerò la musica. E userò la mia telepatia come una sonda chirurgica per dissezionare la struttura della paura"
La prima a scattare fu il tenente Calvi "Di cosa sta parlando dottoressa?!"
"Ascoltatemi bene" continuò Althea, la voce che si faceva più tagliente per sovrastare i bassi della musica "La paura che sentiamo non è un'emozione astratta questo è un costrutto architettonico fatto di onde e risonanze artificiali, ma basate su qualcosa che è strettamente umanoide. Ha una frequenza portante che scava nel talamo e una modulazione che distorce i ricordi, sovrapponendo l'angoscia alla realtà .. ma questa angoscia non è semplicemente qualcosa di studiato da una macchina, ma sulla base di percezioni e pensieri umanoidi. Dissezionarla significa scendere nel nucleo del dolore e separare i tessuti: identificare dove finisce l'impulso sintetico e dove inizia quella parte di emozioni che appartenevano a coloro che hanno dato inizio a tutto questo. È come cercare una melodia stonata nel bel mezzo di un'orchestra assordante: non posso farlo se continuo a urlare sopra di essa con il rock. Devo spogliare l'orrore, strato dopo strato, finché non rimarrà solo la sua impronta più umana, la sua "firma" biologica. Una volta isolata quella radice, potremo capire finalmente lo scopo di tutto questo orrore. Ma per farlo, devo lasciarmi colpire"
"Assolutamente no!" scattò Kenar, facendo un passo avanti "È una missione suicida. Sei una betazoide, Althea. Senza protezione, quel segnale ti friggerà il cervello prima ancora che tu possa formulare un pensiero!»
"Sono un ufficiale medico e possiedo capacità empatiche, Capitano" rispose lei con la convinzione di chi è certa di ciò che è necessario fare "Non è un dato matematico quello che ci colpisce, è un flusso di dolore creato al solo scopo di colpire i nostri cervelli. Se riesco a isolare il nucleo di questa 'voce', se riesco a capire come si aggancia alla nostra memoria, potrò capirne il senso ed infine il modo per difendere l'equipaggio. Non ho scelta. Non abbiamo scelta"
Zoe le afferrò un braccio, lo sguardo carico di un terrore genuino. "Dottoressa, non lo faccia. Abbiamo già visto cosa c'è là dentro. Se si perde in quel buio, non potremo venirla a prendere"
Althea gli rivolse un sorriso malinconico, liberandosi con dolcezza dalla stretta "Il mio compito è guarire, tenente. E questo pianeta è malato. Non posso operare un tumore se mi rifiuto di guardare dove affondo il bisturi" senza aggiungere altro si girò per raggiungere la nave ma si ricordò che poche ore prima la Seatiger era tornata in orbita, quindi sfiorò il comunicatore "Tenente Sheva a plancia, uno da portare su"
USS Seatiger - ponte alloggi ufficiali superiori
Alloggio Sheva Althea
06/09/2398, ore 20:50 - D.S. 75681.83
Pochi istanti dopo, Althea stava percorrendo il corridoio deserto del ponte alloggi. La musica dei Journey risuonava negli altoparlanti della nave, un ordine di Kenar che ora le sembrava un rumore insopportabile. Entrò nel suo alloggio e il portello si chiuse con un fruscio. Per un momento si limitò a guardare le sue cose, i suoi libri, la poltrona dove leggeva di solito.
"Computer" disse, e la sua voce tremò solo per un istante "Spegni la musica in questo alloggio, autorizzazione dell'ufficiale medico capo. Isolamento audio totale. Blocca il portello"
Il silenzio non era assenza di suono. Per Althea Sheva, nel momento esatto in cui il comando vocale spense la musica nel suo alloggio, il silenzio divenne una massa fisica, un fluido denso e gelido che le riempì le orecchie, i polmoni e, infine, i pensieri.
Sprofondò nel buio della stanza, ma i suoi occhi betazoidi non videro le pareti familiari. La sua barriera telepatica, solitamente elastica e resistente, si schiantò come cristallo sotto un maglio. Non ci fu tempo per analizzare, non ci fu spazio per dissezionare.
L'incubo la trascinò sotto, senza fiato.
Il silenzio non durò che un battito di ciglia, prima di trasformarsi in un urlo psichico che la scaraventò altrove. Althea non era più nel suo alloggio si ritrovò improvvisamente sotto la luce cruda e intermittente di una sala operatoria distorta, le cui pareti sembravano trasudare un fumo nero e denso.
Sul tavolo operatorio davanti a lei giaceva Finn. Il suo petto era aperto, ma non c'erano divaricatori o strumenti chirurgici a tenerlo fermo: i tessuti sembravano lacerati da una forza invisibile. Althea sentì il peso familiare e rassicurante del laser chirurgico tra le dita, ma quando abbassò lo sguardo, vide con orrore che le sue mani erano avvolte da una luminescenza grigiastra, una vibrazione che faceva marcire la carne al solo contatto.
"Dottoressa... mi aiuti..." sussurrò Finn. La sua voce non proveniva dalle labbra, che erano cucite da fili d'ombra, ma vibrava direttamente nelle ossa di Althea.
In preda a un istinto disperato di guarigione, lei affondò le mani nel torace del comandante per estrarre quella che credeva essere la fonte del male: una massa nerastra che pulsava al ritmo del cuore di Heaven IV. Ma quando sollevò il "tumore", la luce della lampada scialitica rivelò la verità : tra le sue dita non c'era un'infezione, ma il cuore sano, vibrante e ancora caldo di Finn. Lo stava strappando via con le sue stesse mani, convinta di curarlo.
"No!" gridò, ma il suono della sua voce fu soffocato da un'ondata di agonia telepatica. Le sue dita, invece di rimarginare, trasmettevano una frequenza distruttiva che polverizzava i vasi sanguigni del paziente. Non era più un medico, era la sorgente della malattia che stava consumando la Seatiger.
L'orrore la schiacciò, portandola sull'orlo del collasso mentale, ma fu proprio in quel momento di massima intensità che qualcosa in lei, la parte più profonda e addestrata della sua natura Betazoide, ebbe un sussulto di ribellione.
*Aspetta*
Il pensiero emerse come una bolla d'aria in un oceano di fango. Althea sentiva il dolore di Finn, un dolore atroce, eppure era sterile. Come medico, sapeva che un trauma di quella portata avrebbe scatenato un caos biochimico: l'odore del sangue, il calore della febbre, il sudore freddo della vittima. Ma lì, in quell'incubo, non c'era calore. Il cuore tra le sue mani era freddo come metallo e il dolore che percepiva era troppo strutturato, troppo "pulito". Era una sequenza ripetitiva, una serie di impulsi che ricalcavano uno schema matematico perfetto, non l'agonia disordinata di un essere vivente.
"Questo non è dolore" ansimò Althea nella sua mente, forzando i propri recettori a guardare oltre l'immagine del corpo straziato di Finn. "Questa è... una costruzione meccanica, esattamente quello che non mi serve"
La sua parte razionale, quella allenata a distinguere le proiezioni telepatiche dai sentimenti genuini, riconobbe l'inganno. Il segnale stava cercando di usare il suo senso di colpa per paralizzarla, ma nel farlo aveva commesso un errore logico: aveva proiettato un dolore troppo perfetto per essere vero. Quella realizzazione fu come un primo crepaccio nella muraglia dell'incubo. La visione della sala operatoria iniziò a tremare ai bordi, rivelando per un istante la poltrona del suo alloggio e il ronzio soffocato dei computer di bordo.
Ma il macchinario non accettò la sconfitta. Non appena Althea identificò la natura meccanica dell'inganno, la sala operatoria non svanì per riportarla alla realtà del suo alloggio. Al contrario, si sciolse come inchiostro nell'acqua, lasciandola sospesa in un vuoto bianco, assoluto e asettico.
Non c'era sopra, non c'era sotto. Non c'era il ronzio dei motori della Seatiger, né il battito del suo stesso cuore. Per una Betazoide, quella deprivazione sensoriale era un'esecuzione. Il "rumore" empatico che solitamente la circondava, quel brusio vitale che le confermava di essere parte di un universo senziente, era stato reciso di netto.
"Computer..." tentò di dire, ma non udì la propria voce. Le sue labbra si muovevano, ma il suono veniva annullato prima di nascere.
Fu allora che iniziò l'erosione.
Althea sentì la propria identità sfilacciarsi. Il segnale non stava più proiettando mostri stava cancellando le fondamenta della sua memoria. Cercò di aggrapparsi alla propria laurea medica, ma vide le parole sui libri della sua mente sbiadire fino a diventare pagine bianche. Cercò di visualizzare il volto di suo padre, ma i tratti dell'uomo si mescolarono in una massa informe di nebbia grigia.
*...chi sei?...* sussurrava il vuoto *...non sei un medico... non sei una figlia... sei solo un'antenna che trasmette il nostro dolore...*
Althea si guardò le mani e, con un orrore che superava quello della sala operatoria, vide che stavano diventando trasparenti. Non stava svanendo fisicamente, ma la sua mente stava perdendo la connessione con la propria biologia.
Era il punto di rottura.
Nel buio reale del suo alloggio, il corpo di Althea era rannicchiato sul pavimento, i muscoli tesi in uno spasmo involontario. Non c'era sangue, non c'erano lesioni visibili, ma il suo sistema nervoso stava urlando sotto il peso di una sovrappressione telepatica che minacciava di spegnere la sua coscienza.
Il dolore non era più un'immagine era una vibrazione pura che le scuoteva le ossa, cercando di trasformarla in un guscio vuoto. Ogni ricordo che cercava di evocare veniva sommerso da un ronzio bianco, un'interferenza che cancellava i volti, i nomi, le ragioni per cui si trovava lì.
*Cedi..* ordinava la frequenza *...diventa parte del silenzio...*
Althea sentì la propria volontà scivolare via. Ma fu proprio in quel vuoto che scattò il paradosso. Il suo corpo, privato di ogni stimolo esterno e soffocato dal segnale, reagì con un violento riflesso primordiale. Un'improvvisa scarica di adrenalina, dettata dall'istinto di sopravvivenza più basico, le incendiò i nervi.
Fu un sussulto fisico, un colpo di tosse secca e improvvisa che le squarciò i polmoni, riportandola bruscamente alla realtà tattile.
Il vuoto bianco svanì. Althea si ritrovò con la guancia premuta contro il metallo freddo del pavimento del suo alloggio. Il silenzio era ancora lì, denso e pesante come piombo, ma quel contatto fisico, il freddo del pavimento, il sapore amaro della saliva, il battito accelerato del suo cuore, agì da ancora. A svegliarla fu la discrepanza tra il "nulla" dell'incubo e la solidità del mondo reale. Per un medico, quella era la prima diagnosi: il suo corpo era vivo, dunque il silenzio mentiva.
Aprì gli occhi. Aveva resistito alla prima ondata senza che il segnale riuscisse a "resettare" le sue sinapsi ma la guerra era ancora lunga. Così, senza capirne lo scopo, si ritrovò a camminare in un'infermeria che non finiva mai.
Heaven III - cavità sotterranea
06/09/2398, ore 20:56 - D.S. 75681.84
Il silenzio all'interno della cavità sotterranea di Heaven III era talmente denso da sembrare quasi solido, rotto solo dal fruscio ritmico dei ricircolatori d'aria delle tute EVA. Jason Queen procedeva lentamente, con la torcia montata sulla spalla che tagliava il buio assoluto, rivelando pareti di una pietra nera così levigata da sembrare vetro. Amanda Kiss lo seguiva a breve distanza, tenendo gli occhi fissi sul tricorder, i cui segnali acustici erano gli unici battiti vitali in quel mausoleo planetario.
Superata una soglia monumentale, i due ufficiali si ritrovarono in un ambiente che i sensori avevano indicato come il nucleo della struttura. Non era un magazzino, né un centro di comando militare. Le pareti erano interamente ricoperte da glifi incisi con una precisione molecolare, intervallati da proiettori di dati ormai spenti. Ma era l'atmosfera stessa del luogo a comunicare qualcosa che andava oltre la semplice archeologia: un senso di oppressione e di lutto che sembrava impregnato nelle rocce stesse.
Dalla nave gli era stata inviata direttamente ai loro tricorder una matrice di traduzione che gli permise di capire la lingua isolana e quello che scoprirono li lasciarono a dir poco sorpresi.
"Jason, guarda qui" esordì Amanda, la voce che vibrava leggermente nel sistema di comunicazione "Il tricorder sta iniziando a decifrare l'intestazione di questa camera. La chiamano... la stanza del rimorso."
Queen si avvicinò a una delle pareti principali, dove le traduzioni in tempo reale apparivano sul suo visore come un velo di testo azzurrino sovrapposto alla pietra. Man mano che i glifi venivano decodificati, l'ufficiale scientifico rimase immobile, il volto una maschera di imperturbabile concentrazione vulcaniana.
Solo il movimento rapido dei suoi occhi neri, che saettavano lungo le righe di dati, tradiva l'intensità della sua analisi. Non c'erano resoconti di invasioni o di bombardamenti orbitali causati da potenze nemiche. La cronaca parlava di un'utopia che si era trasformata in un incubo silenzioso.
"Illogico" mormorò Queen, la voce piatta e ferma che risuonava nel casco della tuta "I dati indicano che la distruzione di questa civiltà non è stata causata da un fattore esterno, ma da un collasso endogeno del sistema neurale collettivo"
Amanda Kiss si avvicinò, puntando la torcia sulla sezione successiva del fregio. "Un collasso interno? Intendi una guerra civile?"
"No, Tenente. Una disfunzione sistematica della psiche" rispose Queen.
Le traduzioni che scorrevano sul visore di Jason dipingevano un quadro clinico su scala planetaria. Secoli prima, gli abitanti di Heaven III avevano raggiunto un tale livello di perfezione tecnologica da aver eliminato ogni sofferenza. Attraverso la manipolazione genetica e l'interfaccia neurale, avevano rimosso la capacità di provare tristezza, dolore o rimpianto. Quello che inizialmente era sembrato il traguardo supremo della loro specie, si era però rivelato un errore di calcolo biologico fatale.
"Secondo questi scritti" continuò Queen "..l'eliminazione della sofferenza ha portato a una stagnazione totale. Senza lo stimolo del disagio o della perdita, la popolazione ha perso ogni forma di empatia e di motivazione. La loro società non stava più progredendo stava semplicemente smettendo di esistere per mancanza di scopo"
Amanda scosse la testa, osservando i grafici che mostravano una curva demografica in picchiata "Quindi hanno cercato di 'curarsi'?"
"Esattamente. Ma con un metodo che la logica definirebbe estremo" confermò il Vulcaniano "Una fazione di scienziati, definita qui come 'I risvegliatori', teorizzò che solo il ritorno forzato alle emozioni primordiali avrebbe potuto salvare la razza. Progettarono il sistema degli emettitori su Heaven IV non come armi di offesa, ma come un 'antivirus emotivo'. Il loro scopo era irradiare l'intero sistema con frequenze capaci di stimolare violentemente l'amigdala e i centri della paura."
Queen si fermò davanti a un glifo che pulsava di una debole luce rossastra "Volevano costringere i loro simili a provare di nuovo il terrore, convinti che la paura della morte avrebbe riacceso l'istinto alla vita. Tuttavia, il sistema si è corrotto. Invece di una terapia d'urto controllata, gli emettitori sono diventati dei generatori di terrore puro e incessante, amplificando l'angoscia a un livello tale che la popolazione non è stata in grado di gestirla"
Jason Queen rimase immobile davanti alla parete, la luce della sua torcia che faceva brillare i glifi rossastri come ferite aperte nella roccia. La sua mente vulcaniana processava le informazioni con una rapidità asettica, ma la sequenza logica che si stava delineando era di una brutalità che persino lui trovava difficile ignorare.
"L'incidente non fu un errore di calcolo nelle frequenze" proseguì Queen, la voce piatta che rimbombava nel casco "Fu un'escalation incontrollata. Il sistema entrò in un loop di feedback: l'angoscia generata dagli emettitori alimentava il terrore della popolazione, che a sua volta veniva rilevato e amplificato dalle macchine nel tentativo di ottenere una reazione di 'risveglio' ancora più forte. Il risultato fu una psicosi globale collettiva."
I due ufficiali osservarono l'ultima cronaca incisa sulla pietra: la descrizione di un mondo che, nel disperato tentativo di far cessare quell'urlo psichico incessante, aveva cercato la pace nel fuoco. La guerra nucleare che aveva devastato Heaven III non era stata una scelta politica, ma un riflesso condizionato di una specie portata oltre il limite della follia.
"Qui dice che i sopravvissuti furono trasferiti su Heaven IV," indicò Amanda, seguendo l'ultima parte della traduzione. "Furono condannati a un'esistenza primitiva. Il sistema venne opportunamente riprogrammato: gli emettitori non dovevano più solo stimolare, ma agire come carcerieri. Dovevano impedire che la tecnologia potesse mai più raggiungere i livelli del passato, distruggendo ogni progresso ulteriore per evitare che la razza potesse autodistruggersi di nuovo"
Queen però non rispose subito. Spense la torcia sulla spalla, lasciando che solo la debole luminescenza dei glifi illuminasse il suo profilo severo.
"C'è un'incongruenza logica, Tenente," osservò Queen dopo un istante di silenzio.
Amanda si voltò a guardarlo, confusa "Cosa intendi? È scritto qui, era il loro piano di salvataggio estremo."
"Il piano, sì. Ma la realtà che abbiamo riscontrato sulla superficie di Heaven IV sembra essere sfuggita al controllo dei suoi stessi ideatori" spiegò il Vulcaniano, attivando una comparazione dati sul suo tricorder "Se il sistema fosse riuscito nel suo intento di preservare una società ad uno stadio precedente alla creazione della bomba atomica, avremmo dovuto vedere comunque delle popolazioni ad un livello di evoluzione molto maggiore a quelle presenti. Ma sul pianeta abbiamo trovato solo popolazioni estremamente primitive, tribù di piccole dimensioni distributie su ampie superfici e svaritati segni di insediamenti rurali. Le forme di vita umanoidi vivono di una sussistenza estremamente rudimentale"
Amanda realizzò improvvisamente dove Jason voleva arrivare. Un brivido le corse lungo la schiena nonostante la tuta termica. "Stai dicendo che il sistema ha fallito di nuovo."
"È la deduzione più probabile" Queen si voltò verso l'uscita della stanza, la sua figura scura che si stagliava contro il buio della cavità . Rimase in silenzio per diversi secondi, lasciando che il tricorder completasse l'ultima scansione incrociata tra i dati storici presenti "La documentazione si interrompe bruscamente dopo la riprogrammazione degli emettitori" osservò Queen, la voce monocorde che tradiva solo una fredda analisi dei fatti. "Tuttavia, la totale assenza di qualsiasi sviluppo sul pianeta suggerisce che la variabile finale di questo esperimento sia stata ignorata dai Risvegliatori. Se il sistema è stato progettato per prevenire il progresso tecnologico oltre un certo livello, è altamente probabile che non possieda un punto di arresto autonomo. Al posto di impedire un dato livello di istruzione, il meccanismo ha optato per la totale soppressione del pensiero complesso"
Amanda Kiss scosse la testa, guardando le pareti di quella stanza che sembrava ora più che mai un monumento al fallimento. "Quindi i sopravvissuti sono condannati a rimanere per sempre una civiltà primitiva. Sono rimasti intrappolati in un ciclo di terrore e controllo mentale che non è mai stato calibrato per finire."
"Esatto, Tenente. La logica suggerisce che il sistema abbia continuato a interpretare ogni scintilla di intelligenza come una minaccia alla stabilità del nuovo ordine" rispose il Vulcaniano. "Non si è limitato a impedire la tecnologia ha continuato a 'curare' e 'proteggere' i superstiti fino a quando la loro stessa architettura neurale non è collassata sotto la pressione rendendoli pressoché più vicini a degli animali che ad esseri umani"
Heaven IV - Radura dell'Obelisco
06/09/2398, ore 21:10 - D.S. 75681.86
Finn osservò l'obelisco con un misto di rispetto e fastidio. Quella cosa non avrebbe dovuto trovarsi lì. In mezzo a una natura così selvaggia e perfetta, quel metallo argenteo sembrava una ferita chirurgica nel fianco del pianeta.
"Dieci metri nel sottosuolo..." ripeté Finn, grattandosi il mento. "È come un'ancora. Ma cosa tiene fermo? L'isola o noi?"
Anena non rispose. Si era avvicinato a meno di un metro dalla struttura. I suoi occhi el-auriani, solitamente profondi e calmi, si stavano restringendo come se cercassero di mettere a fuoco qualcosa di invisibile dietro la superficie specchiata.
"Comandante, guardi" sussurrò Anena, allungando una mano ma senza toccare il metallo. "Non riflette la luce. La assorbe."
Finn fece un passo avanti, vincendo l'istinto che gli suggeriva di restare a distanza di sicurezza. Man mano che riduceva lo spazio tra sé e quella colonna argentea, la distorsione ottica si faceva più inquietante. Era un effetto sottile, quasi subliminale: l'immagine della giungla riflessa sulla superficie metallica non era una copia fedele della realtà circostante. I verdi vibranti delle felci apparivano come tonalità di muschio marcio, e il cielo, che sopra le loro teste sfumava nell'arancio del tramonto, sul metallo assumeva il colore dell'argento ossidato o dell'acqua stagnante.
"Raven, sposti il raggio del tricorder sulla base" ordinò Finn. "Cerchiamo di capire se c'è un punto di giunzione tra la punta esterna e il corpo sotterraneo"
Il Tenente Raven annuì, regolando la frequenza del suo strumento. Un raggio di scansione azzurrino colpì la base dell'obelisco.
Nel momento esatto in cui l'energia del tricorder toccò il metallo, il silenzio della radura fu spezzato in modo brutale, ma non da un suono udibile. Fu un violento cambiamento di pressione, un'onda d'urto invisibile che sembrò risucchiare l'ossigeno dalla radura in un unico, vorace istante. L'aria attorno all'obelisco divenne improvvisamente densa e oleosa, caricandosi di una staticità che faceva rizzare i peli sulle braccia e rendeva ogni respiro uno sforzo consapevole, come se i polmoni stessero cercando di filtrare piombo fuso invece che ossigeno.
Era una pesantezza che non gravava solo sul petto, ma sulla mente stessa: un senso di oppressione fisica che dava la nausea, come se la realtà circostante si fosse fatta troppo stretta per contenere sia loro che quella struttura. In quel fluido invisibile che era diventata l'atmosfera, il tempo stesso sembrò rallentare, lasciando Finn e la squadra immersi in una densità asfissiante che vibrava di una minaccia silenziosa, pronta a esplodere.
Sotto la carezza invisibile e invasiva del raggio di scansione, la superficie argentea dell'obelisco sembrò fremere, come la pelle di un rettile che reagisce a una scottatura. Inizialmente apparvero solo dei minuscoli capillari cremisi, ma in pochi istanti si trasformarono in una fitta rete di venature pulsanti, simili a ragnatele di luce rossa che si irradiavano con violenza dal punto di contatto.
Quelle ramificazioni non rimanevano statiche: strisciavano lungo la struttura con la precisione di un sistema nervoso che si risveglia, percorrendo la superficie liscia come fiumi di lava in miniatura che cercavano una via di fuga. La luce che emettevano non era costante, ma seguiva un ritmo febbrile, un battito sincopato che proiettava ombre lunghe e distorte sui volti della squadra, trasformando la radura in un teatro d'ombre inquietante. Sembrava che l'obelisco stesse mettendo a nudo la sua vera natura: una complessa architettura meccanica ma allo stesso tempo bioneurale che, colpita dall'energia esterna, stava richiamando a sé ogni fibra della sua rete sotterranea per rispondere all'intrusione.
"Raven, lo spenga!" gridò Anena, ma la sua voce suonò stranamente distorta, come se venisse da sott'acqua.
"Non posso! È bloccato in un loop di ricezione!" Raven premeva freneticamente i tasti, ma il tricorder stava ora emettendo un fischio acuto, nutrendosi della stessa energia che l'obelisco gli stava restituendo.
L'obelisco, fino a quel momento immobile come un simulacro, iniziò a vibrare con una forza che sembrava scaturire dalle profondità stesse del pianeta. Non era più il tremolio sottile e fastidioso che avevano percepito sulla spiaggia, quel ronzio elettrico che irritava i nervi ora era un rintocco sordo, un battito cardiaco metallico, profondo e viscerale, che si propagava attraverso la roccia e le radici fino a far sussultare la terra sotto i loro stivali.
Tum. Tum. Tum.
Ogni colpo era un'onda d'urto che risaliva dalle piante dei piedi lungo la colonna vertebrale, un'eco di potenza bruta che sembrava voler sincronizzare il ritmo biologico dei presenti a quello della macchina. Era il suono di un gigante che si svegliava dal sonno dei secoli, una pulsazione meccanica così densa da poter essere sentita non solo dalle orecchie, ma dai tessuti, dalle ossa, dalle pareti dello stomaco. Il suolo della radura rispondeva con piccoli smottamenti di terra e polvere, mentre la struttura argentea diventava una massa vibrante che sembrava quasi liquefarsi sotto la pressione della propria energia interna, trasformando l'intero perimetro attorno ad esso in una sorta di prepotente tamburo.
Tum. Tum. Tum.
"Anena, si allontani!" Finn cercò di afferrare la manica dell'ufficiale, ma l'El-Auriano era come paralizzato.
I glifi rossi sulla superficie iniziarono a comporre delle forme. Non erano caratteri scritti, ma mappe neurali. Finn sentì un dolore improvviso alla base del cranio, una fitta acida che sapeva di ferro e paura.
Anena, invece, non provava solo dolore. La sua natura di "Ascoltatore" lo stava trascinando altrove. I suoi occhi iniziarono a roteare all'indietro, mostrando solo il bianco.
"Li senti, Dewey?" mormorò Anena, e stavolta la sua voce era un sussulto di terrore puro. "Le centinaia di migliaia di persone su Hades... non sono morte nel fuoco. Sono morte gridando in questo metallo. Sono qui. Sono dentro questo pilastro."
Anena fece l'unica cosa che non avrebbe dovuto fare. In preda a un istinto di pietà o di follia, appoggiò entrambi i palmi delle mani sulla superficie rovente di luce rossa dell'obelisco.
Il contatto fisico fu la scintilla che fece esplodere la polveriera. Quando i palmi di Anena incontrarono la superficie dell'obelisco, non ci fu una scossa elettrica, ma un collasso della realtà . Le venature rosse che percorrevano il metallo parvero sollevarsi dalla superficie per avvolgere le sue braccia come rampicanti di luce liquida. Anena spalancò la bocca in un urlo silenzioso, mentre la sua mente El-Auriana veniva squarciata. Per lui, il tempo smise di essere una linea dritta: i secoli di agonia accumulati su Heaven III si riversarono nella sua coscienza come un oceano in un imbuto.
"Siete cenere..." mormorò, e la sua voce non era più quella dell'ufficiale misurato che Finn conosceva, ma un suono graffiante, intriso di un terrore troppo grande per essere espresso a parole "Perché state ancora parlando? Siete cenere che cammina!"
Anena si staccò bruscamente dall'obelisco, barcollando. I suoi occhi roteavano, fissandosi sui membri della squadra di sicurezza e su Raven. Ma non vedeva più le loro uniformi o i loro volti attraverso il filtro distorto dell'emettitore, i suoi compagni erano diventati figure scheletriche, avvolte nei fumi radioattivi del pianeta morto. Erano i fantasmi del rimorso che lo tormentavano, simulacri di una vita che il sistema aveva già contribuito a cancellare.
"Anena, torni in sé! Siamo noi!" gridò Finn, cercando di avvicinarsi, ma l'El-Auriano reagì con una violenza ferina.
"Basta con queste menzogne! Siete proiezioni! Siete solo il riverbero di un'agonia che non ha fine!"
Anena si scagliò all'indietro, lontano dall'abbraccio del metallo, ma il suo sguardo era quello di un uomo che stava osservando l'apocalisse in tempo reale. Puntò un dito tremante verso Finn, poi verso gli ufficiali della sicurezza, ma i suoi occhi non mettevano a fuoco i loro volti.
"Perché continuate a muovervi? Perché fingete di respirare?" urlò, e la sua voce si spezzò in un lamento che sembrava risuonare dentro quell'aria densa "Siete solo l'eco distorta di un miliardo di vite bruciate in un solo battito di ciglia! Siete il rumore bianco di una civiltà che è diventata cenere sotto un lampo di luce accecante, ed io sono l'unico condannato a restare per ascoltare il vostro silenzio!"
Quella realizzazione, filtrata dalla sua sensibilità el-auriana e amplificata dalla macchina, si trasformò in una furia cieca. Non era più rabbia contro un oggetto: era una crociata disperata per mettere fine a un dolore che durava da secoli. Con un gesto ferino,
Anena, in preda a un istinto ferino, strappò dalle mani del Guardiamarina Widat l'asta di rilevamento geologico in lega di tritanio. Lo strumento, lungo quasi un metro e mezzo e progettato per perforare la roccia più dura, divenne nelle sue mani una clava improvvisata: un pezzo di tecnologia moderna impugnato per abbattere una tecnologia antica e impazzita. I suoi muscoli si tesero in uno spasmo innaturale, mentre sollevava l'asta sopra la testa, le nocche bianche per la pressione.
"Devo mettere fine all'esistenza di questi fantasmi!" ruggì, e negli occhi aveva il riflesso rosso sangue delle venature dell'obelisco "Devo cancellare l'ombra di questo mondo che si rifiuta di sparire! Se distruggo l'altoparlante, smetterete finalmente di gridare e potrete diventare polvere, come tutto il resto!"
E con un urlo che sembrava strappargli le corde vocali, calò il primo colpo contro il fianco della struttura. Il suono dell'impatto non fu un metallico clang, ma una nota di dolore puro, una dissonanza che fece accasciare i membri della sicurezza, costringendoli a portarsi le mani alle orecchie mentre i loro phaser scivolavano nel fango.
"Tenente Raven! Che diavolo sta succedendo?" gridò Finn, lottando per rimanere in piedi contro una nausea improvvisa e violenta che sembrava rimescolargli le viscere. La pressione nell'aria era diventata tale che ogni respiro gli graffiava la gola.
"È l'obelisco, Comandante! Sta convertendo la rabbia di Anena in energia termica!" rispose Raven, indietreggiando con gli occhi sgranati mentre indicava la struttura che iniziava a emettere vapori azzurri e un odore acre di ozono "L'energia cinetica dei colpi sta sovraccaricando il sistema... se non si ferma, il reattore nel sottosuolo diventerà una bomba al plasma! Ci incenerirà tutti nel giro di pochi secondi!"
Anena non sembrava nemmeno aver sentito la minaccia di morte. Caricò nuovamente il colpo, sollevando di nuovo l'asta di tritanio sopra la testa, incurante delle scintille azzurre che iniziavano a saettare dalla punta del monolito verso i suoi vestiti, bruciacchiando il tessuto dell'uniforme. Per lui, la fine del mondo era già avvenuta secoli prima stava solo cercando di far calare il sipario su quel teatro di spettri, convinto che l'esplosione sarebbe stata l'unica, benedetta liberazione.
Fu allora che Finn fece l'unica cosa che la logica militare avrebbe proibito.
Non estrasse un'arma, non gridò un ordine di arresto. Si lanciò nello spazio vitreo e vibrante tra Anena e l'obelisco, offrendo la propria schiena al calore insopportabile del metallo e il proprio petto alla furia dell'amico.
"Anena, fermati!"
L'asta di tritanio si arrestò a pochi centimetri dalla spalla di Finn. Anena tremava, il respiro pesante come quello di una bestia ferita, lo sguardo che ancora faticava a distinguere il comandante da un'ombra di cenere.
"Spostati, spettro..." ringhiò Anena, le vene del collo gonfie per lo sforzo "Devo farlo... devo mettere fine all'esistenza di questi fantasmi! Devo cancellare l'ombra di questo mondo che si rifiuta di sparire!"
"Non siamo noi a cercare la pace, Anena, sei tu!" Finn fece un passo avanti, sentendo le radiazioni termiche dell'obelisco scaldargli la nuca "Ascolta me. Non ascoltare il coro dei morti. Senti questo?"
Il primo ufficiale afferrò la mano libera di Anena e se la premette con forza sul petto, proprio sopra il cuore che martellava frenetico contro le costole "Senti questo, battito?" Finn gli serrò la mano contro il petto, costringendolo a percepire l'urto violento del suo cuore contro le costole "Dimentica l'obelisco. Dimentica i morti. Questo è il mio cuore. Senti come batte? È reale. È adesso. È l'unica cosa che conta! Resta con me. Resta su questo ritmo e non lasciarlo andare"
Anena spalancò gli occhi, e per un istante sembrò che il rosso dei glifi venisse lavato via dalle sue pupille. L'asta di tritanio sfuggì alla sua presa, cadendo nel fango con un tonfo sordo. Senza il sostegno dell'arma, le ginocchia dell'El-Auriano cedettero.
Finn lo afferrò al volo, barcollando sotto il suo peso, mentre l'obelisco, privato di quella scarica di follia, emise un ultimo gemito metallico. La luce rossa si spense di colpo, lasciando la radura immersa in un'oscurità naturale, rotta solo dalle luci fioche delle torce d'emergenza.
Il silenzio che seguì fu assoluto, quasi doloroso.
"Sono ancora qui..." sussurrò Anena contro la spalla di Finn, un filo di voce che tremava per l'estrema spossatezza..
"Sei qui" confermò Finn, respirando finalmente l'aria fresca della notte "Siamo qui tutti e due"
Finn rimase lì per qualche secondo, sostenendo il peso di Anena, mentre il battito di entrambi cercava lentamente di rallentare. Il silenzio che era seguito allo spegnimento delle luci rosse non era più opprimente, ma gravido di una stanchezza infinita.
"Portiamolo via" ordinò Finn, la voce roca"Tutti quanti, indietreggiate. Ora"
La squadra di sicurezza, ancora scossa, aiutò Finn a sollevare Anena. Iniziarono a ritirarsi verso il limitare della radura, muovendosi con cautela come se calpestassero del vetro sottile. Man mano che la distanza tra loro e l'obelisco aumentava, la tensione nell'aria cominciò a sciogliersi.
Senza più la presenza fisica di Anena a toccarlo, senza il raggio invasivo del tricorder e, soprattutto, senza la minaccia violenta dell'asta di tritanio, l'obelisco sembrò rilassarsi.
Le venature rosse scomparvero del tutto, riassorbite dalla lega metallica. La vibrazione profonda che scuoteva il terreno si smorzò fino a diventare un ronzio impercettibile, per poi svanire nel nulla. La superficie, che pochi istanti prima ribolliva e trasudava vapori d'ozono, tornò liscia e specchiata.
Arrivati al limitare del bosco, Finn si voltò un'ultima volta a guardare. L'obelisco era tornato a essere quello che era all'inizio: un monumento silenzioso e indifferente. La foresta riflessa sulla sua superficie non era più distorta o cinerea ora rifletteva le ombre reali della notte e il chiarore delle stelle che iniziavano a bucare le nuvole. Il sistema aveva smesso di difendersi perché non percepiva più nulla da combattere. Era tornato nel suo stato di attesa secolare, come se quella esplosione di follia non fosse mai avvenuta.
"È finita, Comandante" sussurrò il Tenente Raven, asciugandosi il sudore dalla fronte "Si è rimesso in stand-by"
"Per ora" rispose Finn, voltando le spalle al monolito "Andiamocene da questo posto prima che cambi idea"
USS Seatiger - ponte alloggi ufficiali superiori
Alloggio Sheva Althea
06/09/2398, ore 21:50 - D.S. 75681.94
Non avrebbe saputo dire per quanto tempo errò in quel limbo distopico, un'infermeria infinita dai corridoi circolari che sembravano ripiegarsi su se stessi. Non era chiaro se quella calma asettica fosse un ultimo baluardo eretto dal suo cervello per proteggerla o un sofisticato protocollo della macchina per impedirle di sondare l'abisso in ogni caso, quell'armistizio sensoriale era destinato a infrangersi.
L'ambiente mutò con la violenza di uno strappo.
Il tepore dell'infermeria evaporò nel gelo siderale dello spazio aperto. Althea si ritrovò sospesa, senza peso, sopra i resti martoriati di Heaven III. Sotto di lei, il pianeta non era una sfera di roccia e cenere, ma un'oscena distesa di carne e lineamenti: miliardi di volti fusi insieme in un'unica, sterminata crosta planetaria di agonia. Poteva udire ogni singola fine, come se le sinapsi di un intero mondo stessero scaricando il loro ultimo istante di vita direttamente nei suoi nervi. Percepì l'orrore di madri che guardavano i figli sgretolarsi sotto il vento radioattivo sentì il peso di un popolo che, nel disperato tentativo di estirpare la sofferenza, aveva finito per recidere le proprie radici spirituali, lasciando come unica eredità quel guscio di frequenze d'odio.
...nonPuoiSalvarli...nonPuoiSalvareNemmenoTeStessa...
La voce del segnale la investì con la forza d'urto di un vento solare. Non era un suono, ma un coro distorto che scuoteva le sue molecole, deridendo la sua audacia.
VoleviDissezionarciBetazoide?
Dalla massa dei morti si sollevò una densa esalazione nera, un'ombra che prese forma davanti a lei. Aveva i suoi stessi tratti, la sua stessa divisa, ma le orbite erano pozzi vuoti che trasudavano un'oscurità liquida e densa.
NoiSiamoLaDissezione...
....noiSiamoCiòCheRestaQuandoLaSperanzaVieneEstrattaChirurgicamenteDaUnMondo.
Althea lottò per non affogare nel terrore. Sapeva di essere vicina alla sorgente: quella voce non era un sottoprodotto del suo inconscio, non era fatta della materia dei suoi ricordi. Era l'eco dei Creatori, la firma psichica impressa in quel meccanismo secolare.
"Parlatemi! Spiegatemi il senso di tutto questo!" gridò, cercando di proiettare la propria volontà come una lama di luce mentale, una sonda telepatica capace di squarciare il rumore bianco. Ma ogni volta che tentava di focalizzarsi, l'incubo si ripiegava su se stesso, mutando forma per sfuggirle, finché la realtà non collassò di nuovo.
Si ritrovò bambina, su Betazed. Era nel giardino di fiori-campana della sua infanzia, ma la bellezza era corrotta: i petali erano lamine affilate e il loro rintocco, un tempo dolce, era ora un grido stridente di metallo su metallo. Sua madre era lì, immobile, e la fissava con un disappunto che pesava più di una condanna. Il suo sguardo empatico, che un tempo era stato il rifugio più sicuro per Althea, si era trasformato in un raggio laser glaciale, capace di mappare ogni suo fallimento, ogni crepa della sua identità , ogni istante in cui si era sentita un'impostora nel camice da medico.
"Sei vuota, Althea" sentenziò la figura materna, e la sua voce era priva di vibrazioni emotive. "Hai passato la vita a riparare i corpi degli altri solo per nascondere il fatto che dentro di te non è rimasto nulla da curare. Solo un immenso, inutile silenzio"
Le parole di sua madre bruciavano, ma proprio mentre l'oscurità cercava di soffocarla, Althea sentì qualcosa di anomalo. Sotto lo strato di gelida crudeltà della visione, percepì una vibrazione diversa: un calore debole, quasi impercettibile, come una scintilla sepolta sotto tonnellate di cenere.
Non era il silenzio di cui parlava la finta madre. Era una sorta di memoria collettiva.
Althea smise di lottare contro l'incubo e fece l'esatta cosa opposta: si aprì ad esso.
Aprì la sua mente al dolore, smettendo di considerarlo un attacco e iniziando a leggerlo come un codice. In quell'istante, la visione di Betazed si crepò come un vetro colpito da una pietra. I fiori-campana e lo sguardo di sua madre si sciolsero, rivelando la complessa architettura psichica nascosta dentro all'incubo stesso.
Non erano solo proiezioni psichiche. Erano echi di memoria, frammenti d'anima rimasti impigliati nella trama stessa della macchina.
Sprofondata nel cuore del segnale, Althea sentì la struttura dell'incubo cambiare. Non era più una massa informe di terrore c'erano dei nuclei, delle impronte bio-digitali precise che pulsavano sotto la superficie del dolore.
La sua mente di medico e scienziata cercò un termine per definire quello che stava toccando. Non erano semplici sogni, né scariche bioelettriche casuali. Erano entegrammi. Ne aveva studiato la teoria all'Accademia: mappe neurali complete, scansioni della coscienza che cercavano di preservare l'essenza di un individuo oltre la morte biologica. Ma quelli che stava toccando erano entegrammi "sporchi", incrostati da un rumore di fondo insopportabile. Erano gli echi di memoria degli antichi scienziati di Heaven III, che avevano tentato di digitalizzare le proprie anime per sfuggire all'estinzione.
Ma il piano originale era stato tradito dalla ferocia degli eventi. Il dolore del cataclisma era stato così fulmineo e totalizzante da agire come una morsa termica, cristallizzando quegli echi nel momento esatto della loro distruzione. Erano rimasti "incastrati" in un limbo innaturale, sospesi tra la scintilla della vita e la rigidità del codice, prigionieri di un eterno loop di agonia.
Althea comprese allora l'atroce ironia di quel meccanismo: la macchina era stata concepita per cristallizzare l'evoluzione dei sopravvissuti di Heaven III, bloccandoli in uno stato permanente di infanzia tecnologica affinché non potessero mai più brandire le armi dell'autodistruzione. Doveva essere un argine eterno contro l'ambizione, un modo per onorare il passato negando il futuro. Invece, l'arca della memoria era collassata sotto il proprio peso: aveva spinto il popolo verso una regressione in tribù primordiali e feroci, trasformando il "monito" in una condanna cieca. Ora, quegli uomini erano costretti a rivivere il terrore della fine senza avere più gli strumenti intellettuali per comprenderlo, prigionieri di un trauma che non sapevano più chiamare per nome.
Oltre l'orrore della superficie, Althea percepì un'eco ancora più profonda. Annidata nei circuiti e nelle viscere di metallo, pulsava ciò che restava dei costruttori: una mente collettiva, un coro di coscienze fuse nel midollo stesso del macchinario. Quegli architetti, che avevano sacrificato la loro individualità per farsi guardiani del futuro, erano ora testimoni impotenti del proprio fallimento. Erano intrappolati in un'osservazione eterna, costretti a guardare con strazio come la loro creatura — concepita per essere un'ancora di salvezza — stesse invece divorando l'anima del loro popolo, riducendolo a un gregge di selvaggi terrorizzati.
...Aiutaci...
Quella non era più la voce distorta della macchina, né il ronzio asettico di un'interfaccia artificiale. Era un sussulto umano, una vibrazione flebile e soffocata, sepolta sotto secoli di sofferenza stratificata come cenere su un focolare mai spento. Era un suono che non passava per l'udito, ma che graffiava direttamente la coscienza di Althea: il lamento di chi è rimasto intrappolato in un corridoio buio troppo a lungo, dimenticando persino la forma del proprio nome.
...SiamoRimastiChiusiNelBuio...IlDoloreÈUnMuro...NonVediamoPiùLaLuce...
Althea comprese tutto con una chiarezza dolorosa: quella forza che la schiacciava non la stava attaccando per malvagità . Quell'intelligenza parassita, che la tormentava con i volti dei morti e i fallimenti del suo passato, stava proiettando all'esterno il tormento degli spettri che la abitavano semplicemente perché non conosceva altro linguaggio. Era il grido di chi è rimasto bloccato per secoli in un limbo di terrore, incapace di trovare la via per il riposo, e che ora cercava disperatamente una mente capace di ascoltare. Non era un'arma. Era una necropoli che urlava.
"Vi sento" sussurrò Althea nel vuoto di quel giardino distorto di Betazed. Non parlava alla madre-fantasma, ma a ciò che stava dietro la proiezione. La sua mente betazoide iniziò a vibrare in sintonia con quegli echi, cercando di sintonizzarsi sulla frequenza del loro dolore anziché combatterlo "Vedo la vostra luce sotto tutta questa cenere. Non siete il vostro dolore. Siete ciò che avete cercato di proteggere prima che il buio vi inghiottisse"
Chiuse gli occhi nella visione, ignorando lo stridore dei fiori-campana metallici. Iniziò a proiettare un'immagine di calma assoluta: non la fredda infermeria di prima, ma una luce bianca, calda, una sorta di abbraccio empatico che non chiedeva nulla in cambio. Stava offrendo a quegli echi di memoria - a quegli scienziati perduti nel segnale - un porto sicuro dove smettere di urlare.
"Lasciate andare il passato" trasmise con ogni fibra del suo essere. "Non dovete più fare da guardia a un mondo che non esiste più. Potete riposare"
In quel momento, l'incubo di Betazed iniziò a tremare. Non fu un crollo violento, ma un dissolvimento lento, come nebbia che si dirada al primo sole. Tuttavia, nel vuoto lasciato dalla visione che svaniva, non vi fu il ritorno alla realtà , ma una rivelazione finale, brutale e assoluta.
Althea fu investita dalla verità su ciò che era accaduto ai superstiti di Heaven IV.
Vide i coloni che secoli prima erano scampati all'apocalisse del terzo pianeta, convinti di aver trovato la salvezza sotto lo scudo del Guardiano. Ma vide anche l'orrore di una direttiva automatica rimasta orfana. Il sistema, privo di una guida biologica che ne calibrasse l'intensità , aveva continuato a interpretare la missione originale con una logica demente e implacabile. Per il Guardiano, non era solo la tecnologia a essere pericolosa: la mera esistenza del pensiero complesso, del dubbio, del dolore e dell'ambizione era stata catalogata come una minaccia alla stabilità del sistema. Non si trattava di limitare il pensiero umano, ma di eliminarlo alla radice.
Il meccanismo non si era limitato a impedire il progresso, aveva continuato a curare e proteggere i sopravvissuti fino a quando non era rimasto più nulla da proteggere. La prigione dorata si era trasformata in un serraglio degenerato, dove i confini tra l'uomo e la bestia si erano fatti indistinguibili.
Althea osservò, impotente, le sequenze mnemoniche degli emettitori che consumavano letteralmente le menti dei coloni. Ad ogni ondata di protezione, un pezzo della loro identità veniva eroso, estratto e archiviato nel database, lasciando dietro di sé solo gusci vuoti. Vide uomini e donne vagare per l'isola come residui biologici di una direttiva che non sapeva come fermarsi, automi di carne privati di ogni scintilla vitale.
Ridotti a ombre primordiali, i sopravvissuti avevano smarrito la ragione, regredendo fino a diventare poco più che bestie smarrite in un labirinto di metallo. In quel vuoto intellettivo, l'unica cosa che vibrava ancora era il trauma, un dolore ancestrale che il macchinario mungeva incessantemente. Althea comprese l'orrore finale: il Guardiano non stava preservando la vita, ma stava perpetuando un'agonia. Alimentava la propria esistenza con i fantasmi psichici di esseri che non potevano più evolversi, né morire davvero come uomini, incatenandoli a un eterno presente di bestialità .
La visione dell'obelisco fu l'ultima cosa che vide prima che il legame si spezzasse: una colonna di nervi d'acciaio e circuiti pulsanti che affondava nelle viscere del pianeta, una ferita aperta che sanguinava dati e dolore. Poi, con un sussulto violento, tutto finì.
Il rumore di sottofondo che l'aveva perseguitata fin dal suo arrivo si spense di colpo. Non fu uno svenimento, ma un ritorno alla realtà brutale e gelido. Althea riaprì gli occhi nel buio della sua cabina. Era sola. Il silenzio della stanza era così assoluto da sembrare quasi innaturale dopo il coro di miliardi di morti che le aveva appena devastato la mente. Si ritrovò rannicchiata sul pavimento, con le unghie ancora conficcate nel palmo delle mani e il respiro che usciva a fatica dai polmoni contratti. Il sudore le imperlava la fronte, freddo come l'acciaio delle pareti.
Ma sentiva qualcosa di nuovo: una lucidità tagliente, quasi asettica. Il meccanismo era ancora lì fuori, attivo nel sottosuolo dell'isola, ma per lei era diventato muto. Aveva guardato dentro l'abisso e l'abisso, non potendo digerire l'allenamento mentale betazoide, l'aveva sputata fuori. Lei ora era un'anomalia nel sistema: un'osservatrice che la macchina non riusciva più a leggere o a sottomettere.
Era diventata immune.
Si sollevò a fatica, appoggiandosi alla parete per non cadere. Sapeva cosa era successo a quel mondo. Sapeva che non c'era nessun nemico da combattere, nessuna intenzione maligna da sventare, solo una tragedia che continuava a ripetersi per pura inerzia meccanica. Quella non era una terra di sopravvissuti, né un esperimento sociale. Era un immenso obitorio che aveva imparato a nutrirsi dei propri ricordi per giustificare la propria esistenza.
Si avvicinò alla finestra e guardò fuori, verso la sagoma scura della foresta che nascondeva l'obelisco. Non provò paura, né attrazione. Solo una stanchezza infinita e la certezza che ogni secondo passato su quel suolo era un insulto alla vita che ancora scorreva nelle sue vene.
"È finito.. qui non c'è nessuno da salvare" sussurrò nel vuoto della stanza, e la sua voce le sembrò quella di una straniera.
Sapeva che doveva muoversi, che doveva trovare gli altri e informare tutti delle sue scoperte, ma per un istante rimase lì, immobile, portando su di sé il peso di un segreto che nessun rapporto ufficiale avrebbe mai potuto contenere davvero.